mercoledì 23 ottobre 2013

Contributo teorico di Gaia Martino/curatrice in residenza / An essay by Gaia Martino, curator-in-residency

Sono stata invitata a prendere parte a Case Sparse come unica curatrice in residenza insieme a cinque artiste. In che modo la mia presenza avrebbe influito sul risultato e quali aspettative erano legate al mio ruolo, direi quale fosse il mio ruolo stesso, erano domande che mi erano state lasciate aperte. É stata un’esperienza anomala rispetto a una residenza curatoriale: non ho scelto gli artisti, non ero chiamata a sviluppare una ricerca personale, né mi veniva chiesto di inserirmi nella fase progettuale degli interventi perché, per questioni pratiche (le opere sarebbero state site specific in un percorso pubblico), le proposte erano state presentate e approvate prima ancora dell’inizio della residenza.
I miei interessi si orientano alle pratiche spaziali, nella mia ricerca l’idea di spazio é sempre in continua costruzione: piuttosto che una configurazione stabile di posizioni, esso é il risultato delle diverse traiettorie che lo abitano e lo attraversano, con l’effettivo superamento di una contrapposizione tra forze, con la tensione costante. Per questo motivo, la mia attività curatoriale é rivolta ai processi in grado di costruire spazio, a quei progetti artistici che nascono per essere qualcosa, più che per rappresentare qualcosa.
Ecco dunque perché ho accettato di prendere parte a Case Sparse: ho sovrapposto quello che sono con l’opportunità che mi veniva offerta e ho trovato interessante l’occasione nella misura in cui l’assenza di previsioni e di aspettative sul mio conto, insieme alla varietà delle persone che avrebbero abitato e
attraversato lo spazio, mi concedevano al contempo dubbio e libertà di azione, due premesse intriganti per la pratica spaziale.
A residenza iniziata, ho deciso di non assumere una posizione frontale, non mi interessava ricoprire un ruolo predefinito, in una situazione che non mi imponeva nulla mi sembrava limitante. Volutamente non ho influito sulla realizzazione dei progetti, né con consigli espliciti né con giudizi. Piuttosto ho trovato più utile comprendere, indagare, inevitabilmente condizionare con la mia stessa presenza, la dinamica che si stava creando. Volevo lavorare sullo spazio che si rivelava e volevo lavorarci bene. Dunque era fondamentale innescare il desiderio, il mio personale interesse, la soddisfazione, il piacere di fare quello che stavo facendo.
Intuivo che questo passaggio era fondamentale per individuare lo scopo e la forma del mio contributo.
Quando si tratta di ‘spazio’ e di ‘desiderio’ la questione si fa delicata: é necessario ascoltare sul serio, stare attenti a non proiettare sull’oggetto di interesse i propri parametri a priori. Per questo motivo, e per mettermi alla prova trovando utile fare questo, ho deciso di astenermi dallo scrivere per tutta la durata della residenza. La scrittura é lo strumento con cui ho maggiore confidenza, il mezzo con cui mi esprimo, controllo e interpreto i fenomeni. Scrivere durante quei giorni significava rischiare di vedere solo ciò che avevo scritto, limitando l’esperienza tridimensionale nel riflesso bidimensionale di qualcosa che avrebbe finito col somigliare a me più che alla realtà. Ho preferito piuttosto mettere in atto singolarmente con ognuna delle artiste una comunicazione che non fosse necessariamente verbale, partendo dal punto di contatto delle nostre rispettive personalità. Con Monica abbiamo scavato nella sfera emotiva, abbiamo sentito, abbiamo imparato dal frassino e nel mentre intrecciavamo i suoi rami freschi; con Alessandra si é parlato di crudeltà e paura come stimoli all’invenzione della realtà; con Francesca abbiamo camminato, incontrato e aperto, molto; con Esther ho esplorato il buio, per poi capire che il buio non é che uno zero nella formula matematica del suo lavoro, non ha valore ma cambia il risultato; con Luisa c’é stato un dialogo di gesti e scambi, senza parole. Ho fatto lo stesso, per quanto possibile, con le altre persone che hanno attraversato Case Sparse; ognuna di loro era una traiettoria di questo spazio, senza esclusione. Così ho avuto modo di conoscere Fatima: il suo contributo d’artista é un’interpretazione fondamentale, uno sguardo sottile, attento alle ombre e sensibile alla luce, unico prezioso ponte per tutti, adesso, qui.
Uno scultore una volta mi ha detto che era la materia stessa a suggerirgli la forma, la difficoltà stava nel sapere ascoltare la pietra. A Case Sparse é accaduto lo stesso, questa presentazione qui da O’ é la forma che ho ascoltato dalla materia: le opere, le loro autrici. E per imparare é stato necessario prima occuparmi di ciò che stava intorno, dentro, dietro, fuori, sopra, davanti, di come il luogo, il contesto, le persone, le assenze, i bisogni e le idee stavano attraversando e costruendo questo spazio di ascolto.
La mia esperienza rimane non del tutto chiara: mantiene il gesto del dubbio che si allunga a cercare qualcosa e a scegliere fidandosi del tatto e dell’intelligenza. Per quanto scombinata possa sembrare questa affermazione, é esattamente attorno a questo processo che ho costruito il mio modo di fare curatela in residenza. L’aspettativa non ha più avuto valore e i punti di orientamento andavano cuciti a mano, la consequenzialità non era un concetto guida e il senso si rivelava una conquista personale, che si diramava di continuo dentro quello degli altri e da questi si faceva attraversare, senza mai perdere il plurale. É proprio qui che ho trovato e capito, in un processo non lineare: accogliere dentro di sé la perdita di sé, farle posto, ascoltare, riflettere, sedimentare e agire, fino a darle forma.
Qui da O’, in un contesto completamente differente e lontani dall’esigenza di doversi confrontare con la durata permanente e la modalità site specific, ho chiesto alle artiste di lavorare a partire dall'aspetto
residuale della loro opera; abbiamo riconosciuto assieme i limiti formali degli interventi realizzati nel bosco per spingere il contenuto oltre, con mezzi diversi e per uno scopo preciso: non una mostra, non una documentazione, bensì un’ulteriore possibilità al dispiegarsi del nostro spazio.

MONICA CARRERA si é impegnata in prima persona con la sua opera, in una performance solitaria come fa l’uomo medicina delle Ande, il quale da solo sotterra durante una notte il suo corpo per crescere; l’altalena dell’artista, prima di proporre una riflessione aperta a tutti, é innanzitutto un’esperienza viva e inquietante, difficile, che può essere vissuta profondamente soltanto dalla sua autrice. Ora é arrivato il momento di dichiararlo. Tanto va in alto quanto va in basso, ferisci e guarisci, rimani in equilibrio, esplora.

ESTHER MATHIS nel bosco ha creato la possibilità per un momento di avere vita propria. Non é l’installazione la vera opera, ma é quel processo di ricerca, la forza per cui quell’immagine esiste e con sé esiste già l’attrazione verso di essa. Gli elementi naturali per l’artista non hanno un'eco concettuale ma sono il dispositivo che permette ai visitatori di cercare e abitare un momento, ovvero un’immagine di luce.
Esther mette ora in atto lo stesso processo, il suo intervento é un momento da vivere, differente perché lontano e altro é il contesto di Milano. Qui non c’é la soddisfazione delle stelle e il suo é un invito a seguire il fascino di quell’mmagine di luce, cercarla, volerla, fino a farle trovare compimento.

FRANCESCA DAMIANO, mentre la sua installazione era già costruita, una porta di legno massiccio, ogni giorno si recava in una delle tante frazioni di Malonno, per riscoprire la geografia della sua infanzia; qui osservava, fotografava le superfici, poi tornava e apriva porte in quelle inquadrature. Non é più interessante ricordare ora quale significato la ‘porta’ avesse, perché l’artista a pratica iniziata aveva già varcato la sua.
Ogni cartolina qui é pensata allo stesso scopo, come una piccola ‘porta’ per la persona che la sceglierà, in una concatenazione di aperture e di scambi che trova posto in un allestimento virale, in contesti sconosciuti.
 Il significato varia dunque per ciascuno, non resta che seguirlo e vedere dove porta.

ALESSANDRA MESSALI si é occupata di restituire alla comunità un contributo immateriale capace di aderire al contesto anche al di là del luogo specifico del suo intervento. Il piccolo volume qui presentato, privo di intento autoriale e narrativa, verrà consegnato alla biblioteca locale di Malonno di cui l’artista si é servita per la sua ricerca ed entrerà a far parte delle fonti relative all’argomento delle leggende locali.
Rifiutando lo sfondo moralizzante dei racconti scritti, per cui l’esistenza stessa dei personaggi che abitano i boschi veniva strumentalizzata al fine di controllare la popolazione, l’intento dell’artista é liberare queste storie da ogni sovrastruttura, difendendo la paura come stimolo all’immaginazione.

LUISA LITTARRU é passata nel bosco, ed é passata anche qui.


( GAIA MARTINO )

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